La Bellezza di Roma attraverso una Cartolina
Quasi tutto è questione di punti di vista. Il palazzo in fondo coi cavalli sopra, per dire, non ha il televisore. C’è chi associa Roma e abitanti a una certa indolenza. Sì, qualche volta è vero. Dare, ricevere. O anche solo immaginarselo. Una città è sempre fatta dei fili che ci connettono. Il monsignore, per evidenti questioni anagrafiche, non è più tra noi. Ma è in arrivo il compleanno della targa. Sarebbe elegante, come regalo, una pulita. Il continente è giusto. Si potrebbe provare a ragionare sul divieto. Siamo, non c’è dubbio, capitale mondiale di un’importante religione. Ma è pure vero che eravamo qua prima. E quindi può venire in mente che a forza di leggere si finisca per trascurare la spada. Poi certo, magari è solo il caso. Passerà. Anche se sì, sembra una battuta. Non basta avere le ali, per essere angeli. A Roma è un attimo. Nasci lavoro in corso, e diventi skyline. E va bene, è ancora luglio. Aspettiamo. Sopra i trenta gradi, certe insegne diventano didascalia. Sarà pure che l’essenziale è invisibile agli occhi. Ma è difficile che senza sguardo possa esistere bellezza. Lo sport fa bene, e serve a tenere sotto controllo il peso. Ma la vita non è perfetta lo stesso. Non c’è dubbio che l’arte, in città, stia tra le cose che contano. Figurano senza dubbio, mangiare e bere, tra le colonne della città. E se fosse proprio il passato a dirci che il futuro è possibile? Sarebbe immobile la città, e sola, se non ci fosse qualcuno ad attraversarla. Sarà che c’è il sole, ma il quattro a quattro tra scimmie e divieti appare comunque un buon risultato. C’è grande attesa, e speranza. Frattanto è chiaro che il cavallo, per il trasporto urbano, non basta più. Resterebbero, in alternativa, le ali. L’incontro tra natura e storia che produce geometria. Ogni città, ma soprattutto questa, è da qui che nasce. Certi spazi condominiali, a Roma, sono al tempo stesso collettivi e appartati. Un po’ bene comune e un po’ città segreta, riescono nel mezzo miracolo di rendere il dentro un luogo aperto. È religione aggiuntiva, a Roma, la bellezza. Sempre restando, è chiaro, negli occhi di chi guarda. È chiaro a Roma, forse più che altrove, come quella col tempo sia l’unica partita che non si può vincere. Poi dice che per fare le cose a Roma ci vuole tanto. Uno che lavora, e tre che guardano. Siamo la lotta continua tra ordine e caos. Teatro della partita è il tempo. Solo una rimonta potrà portarci ai supplementari. Dell’incontro di natura e architettura è fatta, anzitutto, una città. Nei casi più fortunati si aggiunge l’arte. Il rapporto tra nuvole e lacrima, con ogni probabilità, rimane casuale. Qualche volta, specie a Roma, funziona così: tocca sudarsela passo dopo passo. Illuminati dalla convinzione che a un certo punto si andrà più spediti. Le scale hanno a volte il compito aggiuntivo di offrire una presa di fiato alla città. Una volta sistemati sedie e tavolini, un caffè o una birra saranno forse quintessenza di gioia pedonale. Nel frattempo, si fa come al solito. Si può solo salire, oppure scendere. Per certe vite, come per certe pagine della storia, va così. Nessuna possibilità di pianura. Spalle al fiume, la panchina potrebbe essere un ottimo posto per ascoltarlo. Riconoscere una città da uno scorcio è materia per esperti. Ma il frammento di colonna vicino alla tigre è indizio. E suggerisce che con la lupa sono quasi sorelle. Un po’ torre di controllo, un po’ Medio Evo. Perfino i fili, per affinità, abbozzano una merlatura. Certi assaggi di città raccontano storie. Con differente grado di mistero. Qui, per esempio, è chiaro che c’è sotto qualcosa. Il punto vero, per godersi una città, è non avere fretta. Solo la sosta, perfino se obbligata, favorisce lo sguardo. Ci sono cose fatte per la gloria di Dio. E cose fatte per le necessità degli uomini. Roma le mischia, e le confonde. Si può scherzare sul fatto che di solito c’è tutto il tempo per accorgersene. Oppure no. Rimane il fatto che una fermata d’autobus, e ciò che rappresenta, sono uno dei luoghi in cui la città si specchia. Costituiscono pezzo raro, le fontanelle a più bocche, nella potabilità cittadina. Una cosa di cui vantarsi. Però poi questi, a guardare bene, sempre nasoni sono. Fa bene qualche volta la vecchia speranza, cara agli umani, che ci sia luce all’uscita del tunnel. Dipende anche dal rapporto che si ha con le feste. Ma può succedere, in certi periodi, di vedere cartelle della tombola quasi ovunque. Quadrato a chi? Visto il grande successo di San Pietro dal buco della chiave, è normale che si tenda a replicare. Animale che lavora duro: quattro lettere. La città sembra suggerire, ma non è detto. Stare tra i simboli della città, come il Colosseo e pochi altri, è roba da re. Dunque è giusto ricambiare facendosi corona. Sta a casa sua il merlo, tanto più se poggiato sui merli. La confidenza che ha col cielo, da migratore, lo porta all’altezza dei santi. E tutto dice che romani, a volte, si diventa. Dice: a Roma di parcheggio non ce n’è neanche l’ombra. E invece. Una grande città è anche il luogo in cui viviamo in tanti, diversi. Solo non incontrarsi rende l’amore impossibile. Può capitare di essere diversi, anche molto. E scoprire a un certo punto di avere qualcosa in comune. Come fosse un’illuminazione. Così come quelli in cartellone all’Opera, anche questi ciuffi che sbucano spettinati sono in fondo “sconfinamenti”. È il caso, che suona la sua musica. Si può supporre che il nome della strada scompaia a primavera sotto le foglie. E poi ricompaia in autunno. E che a guardarlo, di anno in anno, si cresca. Impressiona, quell’acqua che scorre sui muscoli di marmo e li fa sembrare carne. L’autore dev’essere stato uno bravo. Del letto rifatto – dignità e disciplina che sopravvivono ai rovesci – dovremmo forse parlare, quando parliamo di decoro. Il cielo di Roma, che qualche volta pare dipinto, ci mette del suo. Ma appare normale, conoscendo la storia del santo, la confidenza degli uccelli. Dici “torre”, e ancora non hai detto niente. Una viene dal passato. L’altra da Marte, forse. Ma non è detto. D’altra parte una città è proprio tempo che incontra lo spazio. La soluzione, è chiaro, sta nella sistemazione del cartello, che magari è già avvenuta. Ma intanto toponomastica chiama enigmistica. E aggiunge un gioco ai giochi possibili in città. È soprattutto questo, Roma. Lo spazio di un incontro irripetibile tra gli umani e il tempo. Si mischiano spesso, in qualche punto di Roma, passati diversi. Nemmeno il pino, che è lì da un pezzo, li conosce tutti. A certe temperature la sosta, oltre che vietata, non è nemmeno consigliabile. Meglio andare, affidandosi a ogni protezione possibile. Anche nella città del tempo lungo, qualche volta, si ha la sensazione che tutto scorra. Sarà magari la vicinanza del fiume. È chiaro che non c’entra niente. Però quell’immobilità, benché dovuta al marmo, fa immaginare che il semaforo sia rosso. Una delle cose interessanti, in una strada, è vedere dove porta. Galleria e arte, d’altra parte, sono fatte per stare insieme. Ci sono ottime possibilità che dietro il tronco d’albero ci sia una finestra. E molto poche che sia tonda. Ma solo andare sul posto ce ne darebbe certezza. Può succedere che un ponte dedicato alla musica ricordi uno strumento. La luna di giorno – un friccico, probabilmente – aiuta le cose a sembrare possibili. L’acqua, di cui i nasoni sono simbolo e veicolo, è all’origine di questa città. La chiamiamo Tevere, o Tirreno, ma quello è. Sembra giusta, dunque, un po’ di riconoscenza. Guardarsi allo specchio e vedere come si era da giovani. A pensarsi eterni, può capitare di montarsi la testa. È chiaro che i due muri si parlano, anche se non è chiaro cosa si dicano. Forse che la bellezza, qualunque cosa sia, non è uguale per tutti. Trovare armonia tra pubblico e privato è il sogno di ogni città. Quando succede, a volte, è una visione che ipnotizza. Il verde delle erbacce si può supporre, il rossiccio dei mattoni disposti ad arco pure. Del travertino non serve parlare. Il resto, un po’ Rothko un po’ prova colore, per chi vuole è soprattutto gioco. È passato un sacco di tempo. La verginità è persa, e non sappiamo bene cosa misurare. Ma siamo ancora qui. In effetti un po’ d’acqua per cui non serve pagare, specie quando comincia a fare caldo, ha tutta l’aria di una benedizione. Il divieto d’affissione tecnicamente è rispettato. Rimangono, è chiaro, altri problemi. Quando si è fatti per stare insieme, è inutile fingere di ignorarsi. È un corpo, la città. Cui ogni tanto succede di mangiare pesante. A chi li guarda con attenzione, può perfino succedere che alcuni angoli di città diano la sensazione di ricambiare lo sguardo. Si affrontano, scala e muro, rappresentando idee diverse di città. L’una connette, l’altro nega. Roma, come è evidente, prosegue. Perciò da qualche parte si deve pur passare. Poesie, graffiti, contatori, brevi testi su Roma. Si fa presto a dire “lettura”. Benché in relazione piuttosto stretta col divino e la sua luce, siamo comunque città. Dunque faccenda soprattutto umana. In certi casi si vede benissimo. In certi avvallamenti, nel ritmo disuguale, nell’andatura stortignaccola, è come se la scala condividesse la fatica che può volerci a percorrerla. E anche questo le dona. Di umani, geometria e caso è fatta soprattutto una città. Al menù, guardando bene, mancava giusto un dolce. La sensazione, a distanza, è che Maria sia uscita da uno dei dipinti, e poi dalla chiesa, per riscaldarsi al sole di Roma. Ma è chiaro che per capire meglio occorrerebbe avvicinarsi. Può perfino succedere che la tutela della bellezza diventi essa stessa bellezza. L’importante è non pretendere di capire sempre tutto. Il naso a becco, oppure proprio il becco. Quell’occhio un po’ così. E la netta sensazione di essersi già visti. Ci sono un sacco di punti in cui Roma sembra finire. Poi di solito invece ricomincia, che è la sua vera specialità. E poi sì, ogni tanto sembra tutto un tale casino, che viene solo da alzare gli occhi al cielo. Si dice che la vita sia la più grande opera d’arte. Ma pure allearsi, arte e vita, può dare i suoi frutti. E va bene: qualcosa è andato storto. Ma non è detto che non si possa ripartire. Una “A”, in materia di nuovi inizi, può già essere buon segno. Di sicuro non si addice, la sosta, a così tanta possibilità di esplorare. Un cartello è perciò di divieto. L’altro, forse, di esortazione. C’è stato un tempo in cui il Circo Massimo era sede di battaglie navali. Dunque magari siamo di fronte a una ricostruzione storica. Altro che allagamento. È stare vicino, e restarci, che determina la coppia di fatto. Non c’è per forza bisogno di somigliarsi. Una luce che arriva da dentro, un riflesso che svela il davanti. Il mescolarsi di cose diverse definisce una città. Ed è la somma, come sempre, che fa il totale. Mutano, al mutare dei tempi, anche i tragitti dell’amore. A lungo ha viaggiato per lettera, e oggi sceglie altre forme. Vogliamo bene alle fontanelle col nasone, che ci dissetano e ci distinguono. Forse è per questo che qualche volta ci sembrano perfino angeli. Appare più chiaro che altrove, in certi punti, che la città è mosaico. E tutti quanti siamo tassello. Quando non c’è mercato potrebbe sembrare un posto qualunque, ma è Roma. Città che mescola il nuovo e l’usato, da secoli. Ai più ispirati può perfino venire in mente l’Impressionismo. Ma la bellezza sta anche nel fatto che forse le anatre rimediano qualche avanzo. A Roma, per essere onesti, non siamo mai andati fortissimo quanto a skyline. Ma abbiamo le nostre certezze. Difficile trovare, per la raggiera di pancali, una motivazione pratica. Dunque si fa strada l’ipotesi che stiano lì, davvero, a imitazione del sole. Sarà che la bellezza è contagiosa. Sarà che il ferro un po’ ci piace, come dimostra il gazometro. Così non è escluso che l’imbragatura, che sta alle colonne come l’apparecchio ai denti, piano piano venga voglia di tenercela. Possibile che a spostarlo nel museo giusto, con la luce giusta, il quadro salirebbe di molti gradini. Possibile che il segno lasciato dalla sua rimozione, nella folla delle vernici intorno, paia esso stesso bellezza. Valla a capire, l’arte. C’è stato un tempo in cui i piccioni frequentavano in esclusiva le piazze del centro. Ora stanno in ogni quartiere, periferie comprese. Anche questo, a pensarci bene, li rende romani. Timorosi, qualche volta, di scendere ancora. È Roma anche lo specchio, il bianco, la scala a tortiglione. L’immagine riflessa, soprattutto, lo svela. Scombinata come dentro un Picasso, magari per lo sfizio di adattarsi al nuovo. C’è qualcosa di circolare nel discorso della città, che ogni volta sembra finito, e invece ricomincia. Si tratta, in effetti, di capire se e quanto ce ne importa. Una pozzanghera, dopo la pioggia, si può trovare in qualunque città. Quasi mai però è possibile vederci dentro i sampietrini che ricamano il cielo. La piccola scala domestica è affacciata sulla grande scala di città. Come volesse, a modo suo, farsene prosecuzione. Il confronto con i migliori è a volte fonte di ispirazione e sogno. Alla fine, soprattutto, siamo questo. Clamorosa e in parte casuale bellezza poggiata sulle rovine del tempo. Oltre che, a conti fatti, una squadra. Appare croce, con tutto il rispetto, anche l’antenna. Immagine riflessa di un credo abituato alla mondovisione. In mezzo il pino, comunque la si pensi sul mondo e